Imago Ricerche di psicoanalisi applicata

UMBERTO GALIMBERTI
Maestro e traditore della psicoanalisi


Professor Umberto GALIMBERTI
docente di filosofia e psicologia all'Università di Venezia, psicoanalista di formazione junghiana.
Tra i suoi libri ricordiamo: Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente (1975), Linguaggio e civiltà (1977), Psichiatria e fenomenologia (1979), Il corpo (1983), La terra senza il male (1984), Invito al pensiero di Martin Heidegger (1986), Gli equivoci dell'anima (1987), Il gioco delle opinioni (1989), Idee: il catalogo è questo (1992), Parole nomadi (1994), Dizionario di psicologia (1992), Paesaggi dell'anima (1997), Psyche e techne (1999), Orme del sacro (2000).
E' autore di numerose pubblicazioni e di una miriade di scritti sparsi in riviste e libri, anche di lingua tedesca.
Collabora assiduamente alle pagine culturali de "La Repubblica".


"Avete ancora del caso dentro di voi?" è questa nietzschiana interrogazione la domanda ininterrotta che Galimberti rivolge a se stesso e ai suoi interlocutori, consapevole che solo così è possibile "partorire una stella danzante".

Possiamo affermare che Galimberti non ha mai tradito il proprio sentire e capire ed in seguito a questo è divenuto di volta in volta infedele a sé stesso, al Sé riconosciuto dall'altro. Questa parte condivisa è quella che lo unisce al pensiero di Freud e di Jung insieme, perché entrambi maestri fondatori della psicoanalisi, della pratica della parola e della teoria dell'inconscio, insegnamento che non resiste però all'esigenza di ricerca e lavoro della comprensione sia del proprio tempo che dei fondamenti del proprio pensiero.

Com'è noto Freud non ha una stima molto elevata della filosofia, preso com'è dall'esattezza delle scienze naturali, anzi si difende dalla conoscenza filosofica affermando di essersi precluso fin da giovane la lettura di Nietzsche, per un eccesso di vicinanza (aggiungiamo noi). E sarà l'allievo Rank a contrappuntare gli scritti del maestro con preziosi temi filosofici che troviamo, ad esempio, nelle riedizioni dell'opera prima per la fondazione della psicoanalisi, L'interpretazione dei sogni. Ebbene, Galimberti invece non solo predilige la filosofia ma ne fa di questa una interrogazione continua per ciascuno e per la psicoanalisi in particolare. Dice di sé che dopo aver incontrato Severino e quindi la filosofia "la curiosità del mondo psicologico mi induce ad andare in analisi con l'intenzione segreta di diventare analista. Faccio un'analisi personale lunga quattro anni, ma ho l'impressione che attraverso i percorsi analitici non si arrivi a conoscere un bel niente del mondo della pazzia, che è il mondo che mi interessa. Allora vado a far esperienza in manicomio per tre anni (all'ospedale psichiatrico di Novara), con Eugenio Borgna, un primario che conosce bene la letteratura europea e la filosofia." E nasce così un saggio lucido e una rigorosa archeologia del sapere psichiatrico: Psichiatria e fenomenologia.

A Galimberti possiamo inferire quanto scrive Nietzsche in un suo passo (a proposito di Shopenhauer): "un uomo, un cavaliere dallo sguardo bronzeo, che ha il coraggio di essere se stesso, che sa essere da solo e non sta ad aspettare un battistrada e assensi superiori."

Iniziando proprio con quella luce della ragione che Freud ha temuto, la filosofia ingigantita dalle ombre dell'inconscio, Galimberti si muove con un pensiero audace, con uno scavo impietoso, con una forza inesauribile per chiedere alle scuole dei fondatori della psicoanalisi che cosa ne sia delle profondità entro cui il lavoro di Freud e Jung si erano gettati, stupiti. E in questa domanda radicale enuncia il proprio tradimento rispetto a teorie e metodi che non rispondono più alle domande essenziali dell'uomo ma soltanto alle leggi del vorace mercato farmacologico. Quello che Galimberti rinviene nel panorama della psicologia, psicoterapia, psichiatria, psicoanalisi del nostro tempo è una piatta, conformistica riduzione della diversità alla norma, dell'individuo alle richieste della società, della terapia alle esigenze della razionalità dell'Io, delle emozioni alla semplificazione bio-farmacologica.

Ma, tradire è trasgredire al sistema di pensiero del proprio tempo, al claustrum delle regole culturali del sapere che non permettono la scoperta di nuovi pensieri. Tradire è esprimere il proprio dai mon, il desiderio di libertà e di individuazione. E il tradimento appartiene alla fiducia, come il giorno alla notte: non si dà fiducia senza possibilità di tradimento, così non si dà tradimento se non all'interno di un rapporto di fiducia. Fiducia nella rivoluzionaria scoperta della psicoanalisi, secondo cui, ad esempio, sorprendentemente l'Io "non è padrone in casa propria".

La fiducia adulta sa bene che fiducia e tradimento sono internamente collegati, sa che il bene e il male sono inanellati e che, come scrive Nietzsche, chi ha familiarità con l'anima prima o poi prende a conoscere come il piacere si intreccia con il dolore, la maledizione con la benedizione, la luce con le tenebre. E Galimberti osserva come tutte le cose siano nell'anima "incatenate, intrecciate, innamorate e insieme tradite, senza una visibile distinzione, perché l'abisso dell'anima, che tutte le sottende, vuole che così si ami il mondo."

Oggi la psicoanalisi non pensa. La psicoanalisi è "giudiziosa" e così invece di operare con coraggio nella società del nostro tempo, preferisce soffermarsi alla relazione con l'altro, alla relazione madre-bambino, perdendo così una valida occasione per essere attiva e viva all'interno della società attuale. Se la psicoanalisi vuole davvero offrire il proprio contributo deve smettere di continuare a dividersi in scuole e scuolette, ciascuna con il suo maestrucolo e suoi docili adepti.

Così come per la filosofia, anche alla psicologia conviene calarsi nel sacro fuoco eracliteo che di continuo solleva figure dell'anima, in un ininterrotto divenire, invece di affaticarsi a spegnerne l'incandescenza sotto le fredde folate della scienza e dei suoi metodi, che altro non sono, Galimberti "se non irrigidimento di metafore con cui l'anima gioca."

Altrettanto per la psichiatria scientifica, che invece di arrivare all'uomo si ferma alla malattia. Kant nel "saggio sulle malattie della testa" scrive che "c'è un genere di medici, i medici della mente, che pensano ogni volta che trovano un nome di aver trovato una malattia."

Sembra che la legge della vita sia scritta più nel segno del tradimento che in quello della fiducia, forse perché la vita preferisce di più chi ha incontrato se stesso e sa davvero chi è, piuttosto chi ha evitato di farlo restando rannicchiato in un'area protetta per il terrore di incontrare se stessi, un giorno almeno, con il rischio di non essere mai davvero nati.

Se siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, quando il radicamento non ha altra profondità che non sia quella della vecchia abitudine, allora l'etica del viandante, delineata da Galimberti, ci offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le nostre costruzioni, perché l'apertura che chiede sfiora l'abisso, dove non c'è nulla di rassicurante, ma dove è anche scongiurata la monotonia della ripetizione, dell'andare e riandare sulla stessa strada, con i soliti compagni di viaggio, senza nessuno da incontrare.
Il viandante non può vivere senza elaborare la diversità dell'esperienza, cercando il centro non nel reticolare dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava nel "cielo stellato" e nella "legge morale", che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell'arco in cui si esprime la vita in tensione.
Ma con la fine dell'uomo giuridico e l'irrompere sempre più forte dell'alterità, della differenza, il viandante si trova ad andare sotto un cielo che non è più garantito dall'aristotelico "cielo delle stelle fisse", l'orizzonte allora si dilata e il suo dilatarsi lo abolisce come orizzonte, come punto di riferimento, come incontro della terra con il suo cielo.
Come scrive (La gaia scienza, 129) Nietzsche: "Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle - e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c'è l'oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c'è niente di più spaventevole dell'infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito liberato e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Gai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà - e non esiste più "terra" alcuna."

Dopo l'uomo preistorico di Jung e l'uomo storico di Freud, dopo l'uomo senza qualità di Musil e l'ultimo uomo di Nietzsche, ecco l'uomo tecnologico e depsicologizzato di Galilmberti e pertanto (Psiche e techne, pp. 714-15) benché il passo decisivo "verso l'assoluto tecnico, verso la macchina mondiale" sia già stato compiuto

"c'è una sola speranza, quella che Nietzsche ha sintetizzato nell'espressione "l'uomo è un animale non ancora stabilizzato". (…)Per questo non deve estinguersi la capacità di anticipare, quella capacità che i Greci avevano attribuito a Prometeo. (…)E' questa la capacità venuta meno all'uomo d'oggi, che non è più in grado di "anticipare" e nemmeno di "immaginare" gli effetti ultimi del suo "fare". In questa inadeguatezza è il suo massimo rischio, così come nell'ampliamento della sua capacità di comprensione dello "smisurato" che lo attornia la sua flebile speranza. Questa ampliamento psichico, ben lungi dall'essere sufficiente per dominare la tecnica, evita almeno all'uomo che la tecnica accada a sua insaputa e, da condizione essenziale all'esistenza umana, si traduca in causa della sua estinzione. Con ciò non pensiamo ancora alla soppressione "fisica" dell'uomo, ma alla soppressione della sua cultura, della sua morale, della sua storia. Occorre infatti evitare che l'età della tecnica segni quel punto assolutamente nuovo nella storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più: "Che cosa possiamo fare noi con la tecnica?", ma: "Che cosa la tecnica può fare di noi."


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