GOETHE E FREUD
FORME DI UN IMMAGINARIO CONDIVISO
Silvia Vegetti Finzi
Freud e Goethe
"Quell'essere collettivo che porta il nome di Goethe" è una
figura così centrale nella cultura tedesca che non ci stupisce sia il
più citato nell'opera freudiana.
Più difficile appare il compito di riconoscere quale ruolo vi svolga.
Risulta subito evidente che Freud lo evoca a più riprese come un grande
saggio, come colui che ha saputo costruire un mirabile equilibrio tra
il passato e il presente, la scienza e la poesia, il pensiero e la vita,
l'essere e la realtà. Quando nel 1930 gli fu conferito l'ambito "Premio
Goethe", Freud dichiarò che quel riconoscimento aveva segnato la
vetta più alta della sua vita. Nel discorso che tenne in quell'occasione,
cercò di delineare una discendenza diretta da colui che considerava
un vero e proprio precursore della psicoanalisi.
Scrive Freud: "Io penso che Goethe, a differenza di tanti nostri
contemporanei, non avrebbe respinto di malanimo la psicoanalisi. Egli
vi si era accostato in più di un luogo, aveva riconosciuto per intuizione
diretta molte cose che in seguito abbiamo potuto confermare, e parecchie
concezioni che hanno attirato su di noi critiche e dileggi, sono accettate
da lui come cosa ovvia. Così, per esempio, gli era familiare la forza
incomparabile dei primi legami affettivi dell'uomo. Egli la celebrò
nella "Dedica" del Faust con parole che potremmo ripetere
in ciascuna delle nostre analisi: "Di nuovo risorgete, o fluttuanti
fantasmi, / che in gioventù appariste al mio sguardo annebbiato./ Tenterò
stavolta di trattenervi?/ ...Torna il mio primo amore, le prime amicizie,/
Quasi vecchie leggende mezzo cancellate dal tempo".
Non a caso Faust viene inizialmente strappato dalla tentazione del
suicidio dal suono delle campane che gli ricordano l'infanzia (766-780):
A quelle sfere non oso io tendere
da cui risuona la buona novella:
eppure queste voci consuete alla mia infanzia tornano ancora a richiamarmi
in vita...
La memoria d'infanzia mi richiama
ora dal grave ultimo passo.
Mentre Goethe evoca l'infanzia di Faust, Freud analizza quella di Goethe
concludendo con queste parole, valide per entrambi: "le radici della
mia forza stanno nel rapporto che ho avuto con mia madre".
Ma, come è noto, Faust non si limita a recuperare l'infanzia perché
il suo viaggio iniziatico si spingerà ben prima della propria nascita,
scendendo l'abisso del tempo sino alle sorgenti. Così come l'anamnesi
psicoanalitica connette il tempo della biografia individuale (ontogenesi)
con quello della storia umana (filogenesi). Le Madri (Mütter),
che Freud media dal Secondo Faust, (adottandone la forma plurale,
che poco si addice all'immediata esperienza psicologica, connessa piuttosto
alla figura di una madre, la propria) presidiano, tra i due grandi autori
di lingua tedesca, l'intersezione di un immaginario condiviso.
Per entrambi le monumentali figure della maternità primigenia si stagliano
dinnanzi al loro sguardo, che si è reso cieco all'evidenza per scandagliare
l'invisibile, contro l'ultimo orizzonte della conoscenza, alle frontiere
del nulla, dinnanzi a "una lontananza eternamente vuota".
La loro significazione si lascia cogliere, non tanto nella decifrazione
del contenuto latente, quanto negli effetti perturbanti (nel senso del
freudiano di Das Unheimliche) che esse inducono. La loro presentificazione
viene vissuta come una rivelazione, un'emergenza del sacro improvvisa
e violenta secondo l'accezione di René Girard. Essendo simboli esse
non dicono ma indicano, rinviano, rimandano: dove? Evidentemente al
luogo nel quale siamo già stati e al quale desideriamo e paventiamo
ritornare. In una prospettiva individuale possiamo identificare quel
luogo come il preedipico, come ciò che sta prima che io diventassi io.
In senso collettivo invece come la preistoria dell'umanità, il tempo
immobile dal quale scaturisce la temporalità, dal quale scocca la freccia
del tempo lineare della cronologia e della storia. Oppure, in altri
termini, possiamo attribuire alle Madri la funzione di personificare
ciò che per definizione non ha forma, cioè la materia increata. E che
della forma è l'inizio, la scaturigine.
Credo che Freud sia debitore a Goethe di una della sue più potenti
e sovversive ideazioni: l'inconscio impersonale, che trascende l'individuo,
la biografia, la storia, che è nel tempo senza essere scandito dal tempo,
che è nel pensiero pur appartenendo, per definizione, all'impensabile.
Le Grandi Madri goethiane sono la cerniera che allaccia i due grandi
visionari, Goethe e Freud. Cogliere nella connessione tra poesia e psicoanalisi
gli effetti conoscitivi dell'immaginazione ci permette, almeno per un
momento, di valutare la portata sovversiva dell'inconscio e di riconoscerne
l'intrinseca irriducibilità al sapere.
La verità che ci è dato intravedere è al tempo stesso etica ed estetica
perché segna il limite che l'onnipotenza conoscitiva incontra quando
si sporge al di là dell'umano e al tempo stesso l'ignoto che attira
e alimenta ogni volontà di sapere.
Quanto a me ho provato, facendo interagire tra loro testi relativamente
lontani nel tempo e nello spazio, come le opere di Goethe e di Freud,
l'ebbrezza dell'alchimista che si attende, dalla commistione degli elementi,
l'emergere di una presenza nuova nel mondo. Gli alchimisti chiamavano
'madre' quella prima materia, quella sostanza originaria che avrebbero
nobilitato sino ad estrarne la "pietra filosofale".
Ho seguito, in questo itinerario, la suggestiva esortazione di René
Girard quando scrive, a conclusione Delle cose nascoste sin dalla
fondazione del mondo: "Non ho mai pensato che questi testi
esistessero soltanto per essere contemplati passivamente, come delle
bellezze naturali, gli alberi di un paesaggio, per esempio, o le montagne
in lontananza. Ho sempre sperato che il senso facesse tutt'uno con la
vita. Il pensiero attuale ci trascina verso la valle dei morti di cui
cataloga a uno a uno le ossa. Siamo tutti in questa valle ma dipende
da noi risuscitare il senso confrontando gli uni con gli altri tutti
i testi senza eccezione invece di alcuni di essi soltanto".
Dee dell'Olimpo freudiano
Secondo una lettera inviata da Freud a Stefen Zweig, quando Breuer
fuggì di fronte al parto isterico di Anna O. , "aveva in mano le
chiavi che gli avrebbero aperto la strada verso le madri ma le lasciò
cadere". Che cosa significa questa metafora, tanto esplicita nella
lettera quanto ermetica nel contenuto?
Il richiamo al Faust II di Goethe, evidente per noi, a maggior
ragione doveva risultare tale al suo corrispondente, nutrito come lui
di quella cultura classica che un buon viennese apprendeva sin dal ginnasio.
Ed è proprio per influenza di Goethe, della sua filosofia della natura,
che il ginnasiale Freud aveva scelto la facoltà di Medicina.
Siamo nel 1932 e l'anno prima, nel famoso saggio Sessualità femminile,
Freud aveva riconosciuto fondamentale - nel processo del "diventare
donna" - il rapporto con la madre. Di conseguenza, la causa prima
dell'isteria e della paranoia femminili sarebbero da collocare nel periodo
della relazione diadica madre-figlia. Freud affronta questo segmento
di riflessione teorica con uno stato d'animo del tutto particolare:
di fronte all'importanza del legame originario, dimostra uno stupore
che non ci saremmo attesi da uno sperimentato speleologo dell'inconscio.
Scrive in proposito: "Tutto nell'ambito di questo primo attaccamento
alla madre, mi sembrò difficilissimo da afferrare analiticamente, grigio,
remoto, umbratile, arduo da riportare in vita, come se fosse precipitato
in una rimozione particolarmente inesorabile".
Eppure da tempo aveva colto, nel sintomo isterico, un collegamento
con il passato remoto, tanto da scrivere a Fliess, il 27 ottobre 1897:
"La nostalgia è la caratteristica principale dell'isteria".
Ciò che ora lo turba non è il mutamento del paradigma esplicativo delle
nevrosi e psicosi femminili (dal padre alla madre) ma l'incontro con
il fantasma originario della madre arcaica, della figura primigenia
che presiede tanto alla nascita del mondo quanto alla identificazione
di sé. Scrive infatti Freud: "La cognizione di un'antica epoca
preedipica nella femmina ha provocato in noi una sorpresa simile a quella
che, in un altro campo, ha suscitato la scoperta della civiltà minoico-micenea
precedente alla civiltà greca".
"Epoca preedipica" indica un periodo della vita individuale
nel quale il padre non è stato ancora riconosciuto e pertanto la madre
costituisce per il bambino l'unico referente. Un mondo senza padre risulta
a Freud, che vive in una cultura patriarcale, così minaccioso che non
finirà mai di allontanarlo e, per quanto possibile, di esorcizzarlo.
Un primo tentativo in tal senso è quello di relegarlo all'interno dello
sviluppo femminile, come se la madre non rappresentasse anche per il
figlio maschio l'originario oggetto d'amore.
Alla luce dell'intera opera freudiana ci risulta ora agevole comprendere
che le chiavi, lasciate cadere da Breuer, rivestono una molteplici di
simboli. Rappresentano, infatti, il coraggio e la violenza epistemofilica
che reggono la passione di sapere dell'analista, ma rinviano anche alla
strada da percorrere: l'immaginario femminile che via via si disvela
nell'interpretazione transferale del sintomo. Infine l'evocazione delle
madri consente di prefigurare il punto d'arrivo: i limiti estremi dell'inconscio.
Anzi ciò che lo oltrepassa perché, come vedremo, le madri si collocano
non solo al di là del perimetro della coscienza ma anche oltre le Colonne
d'Ercole dell'inconscio storico e individuale.
La metafora faustiana delle madri riveste nell'impresa psicoanalitica
una funzione polisemica, variando a seconda che il discorso si svolga
in un ambito metapsicologico, di storia delle religioni oppure evochi
un orizzonte filosofico o meglio ancora metafisico. Comunque, come sostiene
P. L. Assoun: le Madri ci conducono ai misteri della forma, ci ingaggiano
nella questione dell'origine. Danno forma materiale a un enigma. "Surgies
d'un texte, ces "Mères" se revelent donc avoir partie liée
avec le "savoir de l'incoscient".
Nel contesto della metapsicologia, le Madri rappresentano le pulsioni
(Triebe, spinte) intese come carica energetica, fattore di mobilità
che fa tendere l'organismo verso una méta. Méta che si rivelerà progressivamente
coincidere con uno stato di inerzia, corrispondente alla morte biologica
dell'organismo stesso. Pulsioni di vita e pulsioni di morte non sono
però opposte in quanto normalmente esse procedono insieme: mentre Eros
lega, Thanatos separa gli elementi in gioco. E' soltanto il loro disimpasto
che provoca una fusione annichilente o una polarizzazione letale.
Benché le pulsioni svolgano, nella psicoanalisi, un ruolo analogo a
quello degli elementi primi delle scienze naturali, sembra si possano
rappresentare solo miticamente. Osserva infatti Freud: "la dottrina
delle pulsioni è, per così dire, la nostra mitologia". E, nella
lettera ad Einstein ribadisce: "Lei ha forse l'impressione che
le nostre teorie siano una specie di mitologia, neppure lieta in verità.
Ma non approda forse ogni scienza naturale a una sorta di mitologia?
Non è così oggi anche per Lei, nel campo della fisica? "
Ammesso che non vi siano altre modalità di considerare le energie vitali,
per quale ragione Freud privilegia le Grandi Madri, dato che la mitologia
possiede un repertorio di immagini pressoché illimitato? Forse perché
esse rappresentano l'origine e le pulsioni sono appunto all'origine
del funzionamento psichico. Inoltre entrambe sono costituite da elementi
polari: corpo e anima, vita e morte, materia ed energia, eternità e
tempo e i simboli delle Grandi Madri svelano la simultaneità delle parti
contrapposte e l'eterna tensione alla loro ricomposizione.
Tuttavia quando, in Totem e tabù (1912-13), Freud ricostruisce
una possibile storia dell'umanità, colloca, non la madre, ma il padre
al centro della "scena primaria" della civiltà. Priorità che
ribadisce nel 1921, in Psicologia delle masse e analisi dell'Io allorché,
nella "analisi genetica della religione", assegna il posto
inaugurale alla preistorica figura del padre dell'orda, all'ominide
che detenne un tempo tutte le femmine e generò tutti i figli.
Nel mito freudiano il padre primigenio, ucciso dai figli rivali, venne
idealizzato ed elevato a creatore del mondo, ma ciò non avvenne subito
perché la sua divinizzazione fu anticipata da quella delle Dee Madri.
Vediamo cosa avvenne. Dopo la sua morte, nessuno degli appartenenti
alla massa dei vincitori potè prenderne il posto e, se lo fece, le lotte
si rinnovarono sinché tutti compresero che dovevano rinunciare alla
successione. Sul vuoto lasciato dai conflitti fratricidi, ipotizza Freud,
dovette sorgere una comunità materna, una specie di matriarcato come
quello evocato da Bachofen. Quando, in un secondo tempo, gli uomini
ripresero, seppure in forme molto diverse dall'orda primitiva, il comando
della società, "a titolo di indennizzo" riconobbero le divinità
materne, i cui sacerdoti vennero evirati a tutela della madre, secondo
l'esempio che era stato dato dal padre dell'orda primordiale".
In questo schema la divinizzazione delle Grandi Madri rappresenta una
forma di riparazione nei confronti dello spossessamento delle donne
reali.
Nel frattempo i padri erano diventati molti e ognuno limitava, con
insoddisfazione di tutti, i diritti degli altri. L'impossibilità di
esercitare il dominio assoluto indusse allora uno dei singoli a svincolarsi
dalla massa e ad assumere il ruolo che era stato del padre. Non nella
società ma nella fantasia. Chi compì questo passo trasgressivo fu il
primo poeta epico che, come nota Freud, "contraffece la realtà
accordandola alla propria nostalgia". Inventò il mito dell'eroe
come colui che da solo aveva ammazzato il padre e lo elevò ad ideale
dell'Io. Il mito costituisce il primo passo con cui il singolo esce
dalla psicologia collettiva per compiere un percorso di individuazione
che culmina nella figura dell'eroe. Ma a sua volta la divinizzazione
dell'eroe prepara il ritorno del padre primordiale sotto forma di divinità.
"La successione degli dei - conclude Freud - sarebbe quindi cronologicamente
questa: dea madre, eroe, dio padre". Il tutto preceduto però dall'uccisione
del padre originario.
La Grande Madre, benché non rappresenti, nella cronologia freudiana,
l'origine del processo di civilizzazione (funzione questa attribuita
al padre), compare tuttavia al primo posto nell'ordine genealogico delle
divinità. Potremmo perciò dedurre che, mentre l'uccisione del padre
inaugura la società, la destituzione del potere femminile inaugura la
cultura. Nello schema freudiano, la dea madre non appartiene al registro
del mito, che inizia successivamente, con l'epica eroica, ma ad un universo
di immagini statiche, di icone, senza tempo e quindi senza narrazione.
La loro rappresentazione si configura pertanto come subitanea apparizione
del sacro.
Poiché origine del mito e origine della psicologia individuale vengono
fatti coincidere, le divinità materne restano relegate a un'epoca dell'umanità
che potremmo definire collettiva. Così come le divinità materne risarciscono
le donne del perduto potere comune, la figura dell'eroe prima e del
dio poi compensano gli uomini della rinuncia al dominio assoluto.
Da parte femminile icone mute, da parte maschili i grandi poemi che
stanno all'origine delle civiltà. Nel nostro caso l'Iliade e
l'Odissea. Le dee materne sono comunque destinate a sopravvivere
ai mutamenti storici e Freud già mostrato la continuità di certi fondamentali
elementi di culto nel passaggio da una religione all'altra nel brevissimo
saggio del 1911: Grande è la Diana efesia.
La ricostruzione freudiana, fatta di congetture, non esibisce documenti
in quanto si appella all'evidenza, alla koinè culturale che fa
capo, nella cultura di lingua tedesca, a due grandi studiosi di matriarcato
come Goethe e Bachofen. Altrove Freud nota come, anche quando gli dei
siano molti, il dio creatore è sempre uno e prosegue osservando: "E'
anche interessante che per lo più egli sia un uomo, benché non manchino
affatto accenni a divinità femminili e talune mitologie facciano iniziare
la creazione dell'universo proprio con l'eliminazione, da parte di un
dio maschile, di una divinità femminile, la quale viene abbassata al
rango di mostro".
La successione delle divinità, il passaggio dal regno della madri a
quello degli eroi e degli dei non è quindi incruento e le conseguenze
di tale inversione si possono rintracciare tanto nella cultura quanto
nella psiche individuale. In una delle sue ultime opere, L'uomo Mosè
e la religione monoteistica (1934-8), Freud ritorna sul passaggio
dal matriarcato al patriarcato e questa volta è per rimarcare una contrapposizione
polare tra le due posizioni. Scrive infatti Freud: "Ma questo volgersi
dalla madre al padre segna oltre a ciò una vittoria dello spirito sulla
sensibilità, cioè un progresso di civiltà, giacché la maternità è provata
dall'attestazione dei sensi, mentre la paternità è ipotetica, costruita
su una deduzione e una premessa. Schierarsi dalla parte del processo
di pensiero piuttosto che della percezione sensoriale, si dimostra un
passo gravido di conseguenze". Freud non chiarisce che cosa intenda
con il termine "conseguenze". Forse quella contrapposizione
tra materia e forma che separa così dissimmetricamente i due sessi e
che fa della maternità un processo cieco.
Il ritorno alle Madri può significare allora una possibile ricomposizione
della frattura più profonda che attraversi la nostra cultura separando
non solo il maschile dal femminile ma anche il corpo e l'anima, la ragione
e i sentimenti , il conscio e l'inconscio. In ogni caso vi è qualche
cosa che viene collocato fuori, prima e al di là del perimetro della
razionalità, che il discorso non può dire ma soltanto evocare, magari
nella forma della impossibilità, dell'assenza, dell'impotenza e della
paura.
Oltre il sogno, al di là dell'inconscio
Come è noto Freud preannuncia, in una nota apparentemente marginale
dell'Interpretazione dei sogni (1900), quella che sarà poi la
svolta più importante del suo pensiero. Commentando non un sogno qualunque
ma quel "sogno di Irma" cui egli attribuisce il valore di
"campione", scrive: "Sento che l'interpretazione di questo
punto non si è spinta a raggiungere ogni significato celato. ...Ogni
sogno ha perlomeno un punto in cui esso è insondabile, quasi un ombelico
attraverso il quale è congiunto all'ignoto". La nota si riferisce
a un momento pregnante della rappresentazione onirica, quando, di fronte
alla bocca spalancata della sua riottosa paziente, Freud commenta: "racconterebbe
più di quanto non faccia Irma".
In certi ambiti l'immagine possiede una capacità evocativa che invece
il discorso non ha, come se le parole fossero incapaci di dire ciò che
sta prima della loro apparizione. Poiché la gola di Irma simbolizza,
secondo un'interpretazione ormai consensuale, la matrice femminile,
l'ombelico del sogno sembra congiungere la donna alla madre, o meglio
alla maternità impersonale. Di conseguenza, l'incommensurabile del tempo
onirico si apre all'illimitato dell'origine.
Ricordiamo a questo punto che il sogno costituisce non solo la "via
regia verso l'inconscio" ma anche la miglior rappresentazione del
suo funzionamento. Se il sogno si apre all'ignoto, non è più possibile
racchiudere l'inconscio nell'apparato psichico individuale. Esso ha
un oltre e questo "oltre" si configura come "altro"
nel senso che Freud gli attribuisce quando, analizzando l'attacco isterico
afferma: " Attacchi di vertigine e crisi di pianto sono tutte cose
dirette verso l'Altro, e per di più verso quel preistorico indimenticabile
Altro che in seguito non sarà mai eguagliato da nessuno".
La equiparazione dell'Inconscio col rimosso, che contraddistingue la
prima topica, si rivela ben presto angusta. Vi è una dimensione esterna,
non perimetrata e non perimetrabile, che si configura come il nuovo
spazio dell'indagine analitica. Nella discussione che conclude la relazione
tenuta da Freud presso la Società Psicoanalitica di Vienna il 20 febbraio
1907 sul libro di Moebius, La disperazione di ogni psicologia, il
relatore scrive: "Bisogna supporre una stratificazione dell'inconscio:
un inconscio capace di divenire cosciente, che è il motore dei processi
psichici; e dietro di esso un inconscio eterno". Se, nella prima
topica, la madre preistorica può raffigurare le pulsioni, la loro aurorale
rappresentazione inconscia, successivamente la sua figura assume anche
altre, più complesse valenze.
Quando, con il saggio L'io e l'Es del 1923 Freud elabora una
seconda topica dell'apparato psichico, sostituisce all'Inconscio (che
assume d'ora in poi un senso qualitativo) l'istanza che denomina Es.
Non si tratta solo di una differenza terminologica ma di una rielaborazione
radicale che sembra dar conto, in un certo senso, della nota posta a
commento del sogno di Irma. Ora l'area della psicoanalisi comprende,
oltre al rimosso individuale, anche la storia e la preistoria collettiva,
ciò che stava appunto al di là de "l'ombelico del sogno".
Freud definisce l'Es, riallacciandosi a Nietzsche tramite Groddeck,
quanto nel nostro essere vi è di impersonale e, per così dire, di naturalisticamente
necessitato. E nella sua ultima opera, il Compendio, specifica:
"è tutto ciò che è ereditato, presente sin dalla nascita, stabilito
per costituzione...". Una definizione che richiama, come vedremo,
proprio le madri originarie, nel loro statuto di impersonale necessità.
L'Es ha una struttura interna, una organizzazione specifica? No, risponde
Freud, "l'Es si riempie di energia, ma non possiede un'organizzazione,
non esprime una volontà unitaria. ...Nulla si trova nell'Es che corrisponda
all'idea di tempo, nessun riconoscimento di uno scorrere temporale e
- cosa notevolissima e che attende un'esatta valutazione filosofica
- nessuna alterazione del processo psichico ad opera dello scorrere
del tempo. ...Ho costantemente l'impressione che da questo fatto accertato
al di là di ogni dubbio ....noi abbiamo tratto troppo poco profitto
per la nostra teoria. Eppure qui sembra aprirsi un varco capace di farci
accedere alle massime profondità. Purtroppo nemmeno io sono andato oltre
questo punto".
Il " varco che si apre verso le massime profondità" è stato
oltrepassato, se non dallo scienziato, dal poeta , ed è proprio ad uno
dei massimi poemi, al Faust di Goethe, che affideremo ora l'investigazione
di quell' "oltre" che Freud aveva individuato e dal quale
si era ritirato con sgomento.
Verso il regno delle Madri
Tutto inizia con la "assurda", "fatua" promessa
di Faust di donare all'imperatore la coppia originaria del mondo omerico:
Elena e Paride, "i modelli dell'uomo e della donna", realtà
e simboli della bellezza incontaminata. Si tratta ora di sottrarre quegli
eterni archetipi all'oblio cui i secoli li hanno relegati e di riconsegnarli
alla contemporaneità come una "realtà da interrogare, amare e temere".
Una scommessa che Goethe, attraverso Faust, fa con il proprio tempo
e "perdere questa scommessa significa perdere, insieme alla propria
vita, il destino di una civiltà, abbandonandola alla pragmaticità, all'utile,
alla laicizzazione progressiva".
Poiché l'essenza della bellezza è enigmatica, ogni razionalizzazione
la condanna all'incomprensione. La bellezza è un tesoro, dice Goethe,
e come tale non è monetizzabile ma incommensurabile e misteriosa come
l'oro che giace nelle viscere della terra. La figura di Elena, scrive
Zecchi, " ha in sé sia la forza che produce una pulsione originaria,
sia la qualità del simbolo; ha la concretezza materiale e visiva dell'oro
e l'ineffabilità, l'oscurità del mistero, ha la materialità erotica
del corpo vivente e l'indicibilità del simbolo". Come tale non
appartiene al tempo delle cose ma alla perennità delle forme.
Per entrare nella storia Elena dovrà prima incontrare Mefistofele trasformato
nella orribile Forciade, figura sfigurata, dotata di un solo occhio
e un solo dente. Venendo al mondo la bellezza si contamina infatti con
la bruttezza, con il dolore, con la morte. La forma vivente, rinunciando
all'assoluto, diviene una lebendige Form.
Se vuole rievocare la forma unica del bello, Faust non può prescindere
dal diabolico potere di Mefistofele, da colui che tiene in pugno la
sua vita. All'inizio dell'impresa, i due si incontrano in una galleria
oscura ed entrambi riluttano, sebbene in modo diverso, ad intraprendere
il viaggio verso l'ignoto. Mefistofele allude minaccioso alla necessità
di affrontare una scala ripida, di entrare in un terreno sconosciuto
e di contrarre nuovi sconsiderati impegni. Ma Faust non demorde e, dopo
averlo sbeffeggiato, imperioso ordina a Mefistofele: "Parla e spicciati"
(6212).
A questo punto il testo abbandona la baruffa da commedia e assume un
tono sacro che spiazza completamente il lettore trasportandolo dal mondo
delle parole a quello delle immagini.
Enuncia Mefistofele (6212-6216):
Svelo di malavoglia mistero così alto.
Dee dominano altere in solitudine.
Non luogo intorno ad esse e meno ancora tempo.
Parlarne è arduo. Sono le madri!
Termine ambiguo "le madri" sospeso tra determinatezza e indeterminatezza,
evidenza e ambiguità. Il suono stesso della parola "Madri!"
risulta così strano (wunderlich) da suscitare in Faust brividi
di terrore. Esse compiano sulla scena come doppia sostanza di figura
e di suono, con la terrificante evidenza dell'incubo. Commenta Mefistofele
(6218-6221):
E strano è,
a voi mortali dee
ignote, da noi
non volentieri nominate.
Sulla via alle loro dimore dovrai esplorare gli abissi.
Ne hai colpa tu, se ne abbiamo bisogno.
Poiché loro natura ignota le colloca nell'inconscio, raggiungerle implica
una discesa verso gli inferi analoga a quella che Freud compie nell'Interpretazione
dei sogni, il cui exergo suona, come sappiamo: Flectere si nequeo
Superos, Acheronta movebo ovvero, "se non riuscirò a piegare
gli dei, sposterò i demoni".
Per giungere ai misteri delle forme, rappresentati da Elena e Paride,
occorre scendere nelle viscere della materia. Mentre Platone nel Fedro,
cui Goethe si ispira per descrivere Elena, colloca le forme pure in
alto, Goethe le sprofonda nel basso. Ma questa indicazione riguarda
solo il viaggiatore poiché le Madri non hanno né tempo né luogo.
A Faust che gli chiede: "Dov'è la via?", Mefistofele risponde
(6222-6227):
Via non c'è! Nell'inesplorato
che non si può esplorare; via al non impetrato
che non si può impetrare . Sei pronto?
Non serrami ci sono, non catene da rompere.
sarai travolto dalle solitudini.
Deserto, solitudine; che siano, ne hai un'idea?
L'inconscio non ha né tempo né spazio, ma chi lo affronta si impegna
nella questione delle origini, oltrepassa "l'ombelico del sogno."
Goethe anima la scena che sta oltre l'onirico con l'apparizione spettrale
e sonora della Madri, le stesse che Breuer si è rifiutato di incontrare
e che Freud invece ha visto e sfuggito per tutta la vita. Esse rivelano
qualche cosa che Freud non ha mai voluto teorizzare direttamente: la
componente inconscia della maternità, dove "inconscia" non
significa soltanto rimossa, ma anche impersonale, atemporale, contraddittoria,
perturbante, u-topica. Inizialmente Freud denomina l'inconscio das
Ding, la cosa. Uno zoccolo duro della conoscenza dal quale si è
sempre ritratto, pur riconoscendovi, con una certa approssimazione,
il limite invalicabile di ogni analisi.
Ma il concetto di materia è inscindibile da quello di forma. "La
nostra mente può concepire - scrive Citati - delle pure forme, che non
sono mai nate e che non moriranno: i nostri occhi scorgono ogni giorno
mille, bellissime, cangianti figure terrestri. Ma com'è possibile che
questi due mondi comunichino: che qualche cosa che "è" si
cali nel divenire: che un puro pensiero prenda corpo, scenda in un tempo
e in un luogo? Come vedremo Faust conoscerà il tragico significato di
questo paradosso". Una conoscenza più emozionale che razionale
ma la rappresentazione del mistero, seppure nella forma iconica del
simbolo, è già un'apparizione di verità.
Comunque, la discesa verso gli Inferi originari, in quanto valica il
limite dell'umano, si configura come una colpa. "Ne hai colpa tu",
dice Mefistofele rivolto a Faust, anticipando così il tema centrale
della riflessione psicoanalitica ma in un certo senso di tutta la nostra
cultura, sin dal peccato originale, vale a dire la connessione tra conoscenza
e trasgressione. Ma il desiderio di verità è oltre che empio, impossibile.
Nell'inquietudine che le Grandi Madri destano in chi soltanto le evoca
si rivela l'inconoscibilità della loro essenza. Mefistofele insiste
nel tentativo di far desistere Faust dall'impresa (6239-6248):
E se anche a nuoto varcassi l'oceano
e di là tu guardassi l'illimitato: ma almeno
là vedresti venire onda su onda
e pur nel tremito del tuo sparire.
Ma vedresti qualcosa, vedresti nel verde
di mari quieti delfini vaganti,
nubi vedresti migrare, soli, astri, luna...
Ma in quella lontananza eternamente
vuota non vedresti nulla.
Non udrai il passo che posi.
Dove tu sosterai nulla di certo.
Nella contrapposizione tra il mare e il vuoto, tra l'illimitato e il
nulla, Goethe esprime tutto lo sgomento dell'anima umana di fronte al
venir meno della vita: della luce degli astri, dei colori, del movimento,
del suono, degli esseri animali ed umani così come si pongono alla nostra
esperienza.
Sostare nel nulla mette in crisi ogni certezza, rischia di perderci
a noi stessi riportandoci a quel regno delle Madri dal quale, per esistere,
ci siamo distaccati una volta per tutte. La discesa agli Inferi di Faust
equivale, nell'esperienza individuale, alla regressione verso l'origine,
verso il pericoloso confine tra l'esserci e il non-essere. Zona limite
che confronta, chi vi fa ritorno, con l'angoscia della follia. Per questo,
dice Freud, sostituiamo simbolicamente quella porta verso il nulla che
è il genitale materno, con la testa della Medusa che nega ciò che afferma
in un ossimoro che nessuna interpretazione può disambiguare e che solo
l'orrore può adeguatamente significare.
Di fronte all'effetto orripilante del genitale femminile che, sostiene
Freud rievocando Rabelais, mette in fuga anche il diavolo, il membro
maschile eretto funge da oggetto apotropaico: "Mostrare il pene
- e tutti i suoi surrogati - vuol dire: non ho più paura di te, ti sfido,
ho un pene. Ecco dunque un'altra via per l'intimidazione dello spirito
malvagio! "
Impossibile a questo punto non interpretare in senso fallico la chiave
che Mefistofele consegna a Faust, sempre più motivato nella sua folle
impresa. Osserva Faust sconcertato (6259-6264):
Questa piccola cosa!
Mi cresce in pugno!
Mette luce, lampi!
E Mefistofele di rimando:
Cominci ora a capire che cos'ha chi la tiene?
La chiave scoprirà il luogo preciso.
Tu seguila. Ti guiderà alle Madri. Ma se le madri sono il Nulla che
cosa vi cerca Faust? La sua risposta è lapidaria: il Tutto. La coincidenza
con il valore attribuito da Lacan al Fallo come rappresentante dell'Uno,
del Tutto, non può essere trascurata. Così come il valore eterno che
Freud attribuisce al desiderio della madre per cui ogni altro successivo
desiderio non è che la metonimica, reiterata ricerca di quel primo impossibile
oggetto d'amore.
In un altro senso, il ritorno alla madre si configura come silenzioso
procedere della pulsione di morte, come annientamento di ogni tensione
vitale, fondata sulla mancanza, su gradienti di differenza, nella coincidenza
immobile del Tutto col Nulla. Ma chi vuole la fine deve attraversare
il mezzo, deve compiere il viaggio iniziatico che il mistagogo Faust
si accinge a intraprendere. Ancora un volta il suo ardimento vacilla
al suono della parola "Madri".
"Che cos'ha questa parola che non posso ascoltarla?" Si chiede
Faust. Non vi è risposta a questa domanda se non nel tentativo di rimotirvarsi
all'impresa ricordando a se stesso quanto sia temibile, oltre alla solitudine
e all'insignificanza (il vivere negletto) l'indifferenza.
Afferma Faust (6271-6274):
Non nell'indifferenza, cerco la mia salvezza
Il brivido di meraviglia è quanto di meglio abbia l'uomo.
Anche se il mondo gli fa pagare caro il sentimento,
sente in profondo, quando è commosso, l'immensità.
Stringendo forte in pugno la chiave che gli dà nuova forza, Faust parte
seguendo le contraddittorie direttive di Mefistofele che gli ordina
(6275-6277):
Sprofonda, allora! Potrei dire; sali!
E' lo stesso...
Il "non luogo delle madri" non può essere raggiunto per
la via della conoscenza, attraverso un sapere lineare. Esso appare come
una illuminazione alla luce di un tripode intorno al quale figure spettrali
siedono in trono o si muovono a caso. Benché siano molte, le Madri esprimono
un'estrema solitudine. Indifferenti, distratte, sono viste ma non vedono.
"Formarsi, trasformarsi, eterno gioco dell'eterno senno"
(6287-6288), commenta Mefistofele a proposito delle continue metamorfosi
cui è soggetta la materia. Entrambi i termini "madre" e "materia"
discendono infatti da una comune radice mater. Intorno a queste
divinità ctonie ruotano le immagini di tutte le creature, poiché dove
non vi è né tempo né luogo nulla può disparire. Per la stessa ragione
l'inconscio conserva nei suoi archivi traccia di ogni nostra esperienza.
Faust, seguendo le prescrizioni di Mefistofele, tocca il tripode con
la chiave e questo lo segue come un "servo fedele" lungo la
via del ritorno. Furto degno di Prometeo, il tripode rappresenta la
forza realizzatrice del desiderio. Giunto alla luce, dai fumi del tripode
usciranno, impresa mai tentata prima, i due simboli della bellezza:
Elena e Paride. Gli archetipi, sottratti all'eternità, sono così riconsegnati
al tempo e alla storia.
Le Grandi Madri, entro le quali si celavano, restano invece fisse nel
nulla dal quale tutto si origina: Urphänomene. Il loro tempo
è, come quello dell'inconscio, l'ossimoro del futuro remoto: "sarà
stato". Esse rimangono là, "negli aperti reami delle forme
possibili" da cui si stacca "ciò che ha già forma". Ma
oltre a questa funzione di presidio, le dee eterne sovraintendono alla
formazione (Gestalgung) e trasformazione (Umgestalgung) di
tutte le cose, al passaggio dallo schema alla realtà, dall'essere al
mondo, al "dolce corso della vita", "sotto la tenda del
giorno e la volta delle notti". Metafore assolute - nel senso di
Blumenberg - le dee primigenie non possono essere interpretate.
Nel colloquio che il 10 gennaio 1830 Goethe ebbe con Eckerman, gli
disse di aver ricevuto la prima idea di questi esseri solenni da Plutarco,
dai suoi scritti sulla Vita di Marcello e sulla Decadenza
degli oracoli, in quest'ultimo si parla di un "campo di verità"
nel quale si trovano le basi (lògoi), le forme e le immagini
originarie di tutto quello che esiste ed esisterà.
"Contaminando con questo spunto - scrive Franco Fortini - alcuni
motivi della filosofia greca (pitagorici, platonici e neoplatonici),
fondendoli con altri del tardo Rinascimento ma soprattutto con la meditazione
durata tutta la sua esistenza, e con quanto in quella è riferibile a
Spinoza e a Leibniz, Goethe vede nelle Madri le custodi delle essenze
immutabili ed eterne da cui traggono origine le esistenze particolari".
Sappiamo dal rito e dal mito che le Grandi Madri rappresentano al tempo
stesso la fecondità della terra e del grembo femminile, la vita e la
morte. Le madri incarnano il principio e la fine dell'essere, sono materia
primigenia sulla quale si disegnano tutte le forme. L'alchimia denomina
con il termine "madri" gli elementi intesi come "matrices
rerum omnium". Ma Goethe spinge la connotazione alchemica ad
assumere una funzione metafisica. Esse simbolizzano pertanto l'immanenza
radicale dei principi alchemici e la trascendenza della verità. Sono
ciò che bisogna presupporre. Ma il sapere estremo genera angoscia, alla
quale si può ovviare con la religiosità, con il rito che modera la violenta
apparizione del sacro.
Tempo dell'uomo e tempo della vita
Anche Freud, come abbiamo premesso, fugge dalla conturbante figura
della maternità primigenia, dalla sua incollocabilità e compresenza
dei contrari.
Nel saggio Il motivo della scelta degli scrigni, ripercorre
infatti in senso storico l'elaborazione compiuta dalla cultura dei confronti
del simbolo commisto della Grande Madre. "Le grandi divinità-madri
dei popoli orientali - scrive - sembra fossero generatrici e annientatrici
insieme, dee della vita e della fecondità nello stesso tempo che dee
della morte". La mitologia greca più antica conosce solo una Moira
che rappresenta l'inesorabilità del destino. Ma la sua unicità viene
poi sostituita da una terna di divinità. "Esse sono i simboli del
destino, le Moire o Parche o Norne, la terza delle quali ha nome Atropo:
l'inesorabile".
Il passaggio dall'uno al tre rappresenta lo stemperarsi del tempo immobile
nella successione delle stagioni, dove nascita, vita e morte si susseguono
secondo un andamento ciclico. Le Moire rappresentano la consapevolezza
dell'uomo di essere anch'egli parte della natura e, come tale, soggetto
alla morte.
Ma contro tale angosciosa verità, la fantasia sostituisce, già dalla
scelta di Paride, la dea della morte con quella dell'amore. La terza
figura femminile sarà sempre la più bella e la più buona. L'oggetto
del desiderio viene così a nascondere il volto inesorabile della morte
e quando nei miti e nelle favole l'uomo pensa di scegliere, tra le tre
dee, le tre sorelle, le tre figlie, le tre scatole, non si avvede di
essere mosso dalla necessità perché comunque il destino lo costringerà
a scegliere la terza, cioè la morte.
Nella vita dell'uomo la Dea madre si dispiega lungo tre figure che
scandiscono il suo tempo mortale: colei che lo genera, colei che gli
è compagna e colei che lo annienta: la madre vera, la donna amata che
egli sceglie secondo l'immagine della madre e, infine, la madre terra
che lo riprende nel suo seno. "Ma quando un uomo è ormai vecchio
- conclude Freud - il suo anelito all'amore di una donna, a quell'amore
che a suo tempo aveva ottenuto dalla madre, è vano. Solo la terza delle
creature fatali, la silenziosa Dea della Morte, lo accoglierà tra le
sue braccia".
Come abbiamo visto, Freud preferisce seguire il corso della cultura
e allontanarsi dalla fissità dell'origine a favore di una consolatoria
ciclicità. Tuttavia rimane nel suo lavoro la presenza di una generatività
impersonale ed eterna nella teoria del germen separato dal soma,
secondo la concezione di Weismann. Scrive in proposito: "L'individuo
conduce effettivamente una doppia vita, come fine a se stesso e come
anello di una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendentemente
dal suo volere. Egli considera la sessualità come uno dei suoi propri
fini ; ma da un altro punto di vista, egli stesso non è che un'appendice
del suo plasma germinale a disposizione del quale pone le proprie forze
in cambio di un premio di piacere".
L'abbandono del simbolo della Maternità primigenia ci impedisce di
"vedere" con gli occhi della mente l'aspetto impersonale,
necessitante della generazione. Usciti dal regno delle madri, impediti
come Orfeo di volgerci indietro, procediamo come se la vita e la morte
fossero ormai nelle nostre mani.
La fecondazione artificiale richiede che il problema dell'origine sia
cancellato a favore del tempo presente e della dimensione individuale.
Come presagendo un futuro che ai suoi tempi era sicuramente solo fantasia,
in un capitolo successivo Goethe immagina che Mefistofele e Wagner,
l'assistente di Faust che ha preso il posto del maestro lontano, mettano
al mondo un homunculus in provetta, un grottesco bambino dell'alchimia
in cui possiamo riconoscere un'inquietante anticipazione degli attuali
"figli della scienza".
L'Homunculus, figlio di due padri
L'opus magnum, risultato di un sapere plurisecolare che in Wagner
ha raggiunto l'unità, si svolge in un laboratorio concepito da Goethe
"nel senso medioevale del termine, con apparecchi ingombranti e
goffi per esperienze fantastiche". Ma, nonostante la scenografia
arretrata, il successore di Faust già adombra la scienza moderna. Come
osserva Citati: "Wagner è già un moderno scienziato sperimentale:
un precursore o un allievo di Newton, il pozzo di ogni iniquità',
Bal Isaak', come Goethe, nei momenti di malumore amava chiamarlo".
Wagner, che conoscevamo come un pallido e astenico bibliofilo umanista,
è presentato ora nelle sembianze di un dio metallurgico: con gli occhi
rossi e lacrimanti, sporco di fuliggine nera, soffia sul fuoco e attizza
la brace come un carbonaio. Ma il risultato del suo lavoro contrasta
profondamente con la strumentazione "calda", tipica della
prima produzione industriale. Tutto si svolge infatti in una provetta.
" Che succede ? " - chiede Mefistofele - "Si sta formando
un uomo".
" Un uomo? - chiede ancora Mefistofele - E che coppia di amanti
ha chiuso nei fornelli? " (6835-6838). Ma non vi sono amanti né
amore, ciò che agisce è la passione congiunta del sapere e del potere.
Wagner coagula e cristallizza nel suo crogiuolo la vita senza vivente.
Goethe trova parole tenerissime per accomiatarsi da quel modo di procreare
che Wagner, dopo averlo sostituito con l'artificio, sta denigrando e
rimpiangendo al tempo stesso. Wagner (6838-6847):
...Per noi il modo antico di procreare è una sciocchezza.
Il punto delicato da cui sprizza la vita,
la dolce forza che dall'intimo balzava,
che prendeva e che dava, destinata
a disegnare se stessa, ad appropriarsi
prima quel ch'è più prossimo, poi quello ch'è più estraneo,
ora è stata deposta dalla sua dignità.
L'animale ci trova ancora gusto
ma l'uomo con le sue capacità
grandiose avrà più alta, molto più alta origine.
Sarà la tecnica a separare l'uomo dalla discendenza animale, a sottrarlo
per sempre a quella ingombrante genealogia darwiniana in cui Freud riconosceva
la seconda ferita narcisistica inferta all'uomo dalla scienza moderna,
quella biologica. Spetterà alle capacità grandiose della tecnica permettergli
una "molto più alta origine".
Nel momento della nuova nascita con trepidazione materna Wagner esclama,
osservando la provetta (6872-6879):
Una forza soave fa che il vetro tintinni.
Si turba. Si schiara; deve dunque riuscire!
Vedo in gentil forma dimenarsi un omarino.
Noi che cosa vogliamo, il mondo che vuole di più?
Il mistero è alla luce del giorno.
A questo suono porga orecchio: si fa voce, si fa parola.
Finito il mondo degli dei e degli eroi è ora l'epoca, sembra dirci
Goethe, degli "omarini in bottiglia". Sono davvero loro la
progenie umana dell'uomo emancipato dalla sua componente corporea, bestiale,
mortale? Nato dall'azione trasformatrice della tecnica, dalla realizzazione
di un mito ermetico, l'homunculus si rivolge a Mefistofele con queste
parole (6885-6890):
Ma tu, signor cugino, l'Ironico, sei qui?
Proprio al momento giusto, Grazie.
Sorte benigna ti mena tra noi.
Siccome esisto debbo anche agire.
Vorrei mettermi al lavoro subito.
Tu sei capace di farmi più breve la strada.
Considerato dal suo produttore un super-uomo, in realtà l'homunculus
è un mezzo demone, cugino di Mefistofele e figlio (?) di Wagner. Ovvero
figlio materiale di Wagner e spirituale di Mefistofele.
Goethe prefigura qui la procreazione da un unico genere, quello maschile,
che costituisce l'immaginario inconscio delle biotecnologie. La culla
di vetro dalla quale nascerà l'uomo artificiale è stretta tra le trepidanti
mani dell'apprendista stregone, frutto della sua capacità di aggregare,
"cristallizzare" elementi diversi secondo una combinazione
meccanica che sostituisce quella vitale. L'assenza più clamorosa sulla
"nuova scena del parto" è infatti quella della madre.
Nato dall'agire trasformativo, l'homunculus non può che lavorare perché
solo nel lavoro la modernità trova modo di soggettivarsi. E di eludere
le vere domande, come quella maliziosamente avanzata da Mefistofele,
irritato per l'ingenuo trionfalismo di Wagner; Mefistofele (6886-6900):
Basta! Vorrei sapere invece come mai l'uomo e la donna non vanno d'accordo.
A questo, caro, non ci arriverai.
Ma c'è da fare, qui; è quel che vuole questo esserino.
Alla domanda sembra rispondere Freud quando, al fine della sua opera,
nel Compendio, scrive: "In tutto il suo mistero si erge
tra noi il dato biologico della duplicità dei sessi, elemento ultimo
del nostro sapere, caparbiamente irriducibile ad altro. La psicoanalisi
non ha contribuito in alcun modo al chiarimento di questo problema,
il quale palesemente appartiene per intero alla biologia". E' chiaro
che il termine "biologia" va qui inteso nel significato più
ampio, come discorso sulla vita, quella vita che avevamo "visto"
emergere dal corpo sacro delle Madri e che si riduce invece, nel laboratorio
alchemico, a processo trasformativo di elementi insufflati da una vitalità
diabolica.
Là Dee altere abitano in solitudine, isolate in una u-topia senza tempo;
in quanto rappresentano la coesistenza delle forme perenni e dei fenomeni,
danno la vita ma di per sé non sono vive. Qui figure maschili eterogenee
- un demone, un erudito, un homunculus - si confrontano nello spazio
angusto del laboratorio alchemico che prefigura quello biotecnico.
Il problema dell'Homunculus, che nato dalla fusione di elementi primi
non ha genealogia né referenti che non siano la sintesi dei suoi componenti,
è quello di persistere al di fuori del tempo che muta, di esistere rimanendo
estraneo alle perenni metamorfosi dei fenomeni. Ridotto a una scintilla
di luminosa intelligenza racchiusa in un'ampolla di cristallo potrebbe
sussistere nel tempo immobile e nello spazio vuoto. Per certi aspetti
Homunculus, senza passato e senza futuro, rappresenta un voto che Goethe
esprime due volte per bocca di Mefistofele (1338-1341):
... Nulla c'è che nasca e non meriti di finire disfatto.
Meglio sarebbe che nulla nascesse.
E ancora (11596-11603)
Passato! Che parola sciocca!
Perché "passato"? Passato e puro nulla: identità completa.
Questo perpetuo creare, allora, perché?
Per travolgere nel nulla quel che è stato creato?
"E' passato!" Come dobbiamo intenderla, questa parola? E'
come non fosse mai stato eppure si agita in cerchio, come esistesse.
Preferirei, fossi io, il vuoto eterno.
"Ma - sembra dirci Goethe - la vita è animata da un desiderio di
esistere incompatibile con l'immobilità". Homunculus non si appaga
di un sapere contemplativo: estremo prodotto dell'immaginario neoplatonico
e della magia medioevale, è tuttavia gettato nella modernità e, come tale,
animato da un'ansia di efficienza. L'esistenza consiste per lui nel lavoro,
la sua domanda essenziale è: "Che cosa c'è da fare?" Ma come
potrà mai agire un puro spirito privo di corpo? Vi è una contraddizione
insanabile tra la sua inconsistenza e la sua "volontà di potenza".
Lo sguardo di Homunculus, svincolato dalle gotiche ombre di Mefistofele
e dal trionfalismo scientista di Wagner, libero come un intelletto disincarnato,
guarda il mondo da parte a parte, trapassa il cuore degli uomini, ne individua
i sogni e pensieri del giorno, nulla gli è ignoto. Il suo sapere non conosce
limite e freno, nulla lo trattiene dall'affrontare la terribile Notte
di Valpurga classica, l'orrore delle streghe, degli spettri paurosi, delle
Sfingi e dei Grifoni, delle fiamme, della notte.
Homunculus conosce nel modo più puro: senza venir turbato dal peso
della materia e dall'ambiguità dell'esperienza. Tutto è al tempo stesso
intelligibile ed estraneo alla sua libera, ironica, disincantata visione.
Le pareti di cristallo che lo separano dalla realtà gli consentono una
cognizione senza comprensione, nel senso patico del termine.
In un certo senso Homunculs rappresenta l'umanità bonificata dall'inconscio,
dalla memoria, dalla materialità delle pulsioni, dai turbamenti delle
emozioni, dalla caoticità del processo primario. E' il soggetto non
psicoanalitico per eccellenza. Ma proprio per questo è soltanto la divertente
caricatura dell'umano, ciò che l'umanità potrebbe divenire una volta
che si fosse compiuto quel processo che Max Weber definisce di progressiva
razionalizzazione e intellettualizzazione dell'uomo, di disincanto nel
suo rapporto con la natura.
Faust ha rischiato, scendendo sino alle Madri, quanto vi è da rischiare,
per cui non gli rimane più nulla da vincere. Il nuovo nato invece, ancora
chiuso nella provetta, anela a vivere, ad osare. Ma confonde l'esperienza
con la sapienza, la vita con la filosofia. Per strapparlo al suo intellettualismo,
Mefistofele lo incita ad affrontare direttamente vita (7847-7848):
Senza sbagliare non ci arrivi, alla ragione.
Se vuoi nascere, nasci di tua mano!
Ma Homunculus , come riconosce Talete "è venuto al mondo solo
a metà" (8247-8248) e una mente disincarnata non può accedere alla
pienezza dell'esperienza. Ha tuttavia cognizione che esiste una dimensione
a lui preclusa: ha 'visto' nei sogni di Faust la meravigliosa unione di
Zeus, in forma di cigno, con Leda, da cui nascerà la bellissima Elena
ed ha capito quanto gli manca il calore di un corpo vivo, il piacere del
possesso, il fremito delle sensazioni, l'ardore delle emozioni.
Prodotto ideale della razionalità illuministica spinta al paradosso,
Homunculus anela a contaminarsi con gli umori del romanticismo, secondo
quella complementarietà che sarà realizzata da Freud e teorizzata da
Thomas Mann.
Da quando gli è apparso evidente che la vita è nel corpo, la sua artificiosa
esistenza gli sembra insopportabile e anela entrare nel "carcere"
della materia. Ma la materia vivente, al contrario della fiala di cristallo
che segna i limiti della sua identità, è instabile, metamorfica, proteiforme,
soggetta al deterioramento , votata alla morte.
Tuttavia Goethe non vuole consegnare il figlio, generato dalla sua
ultima creatività mitopoietica, alla caducità che contraddistingue ogni
essere vivente e mobilita, per sottrarlo al destino mortale che lo attende,
tutte le risorse della filosofia della natura, pur consapevole che l'ideale
di una conoscenza onnicomprensiva è ormai declinato. Organizza pertanto,
intorno a Homunculus, un grandioso teatro mitico e filosofico.
Mentre Anassagora rappresenta la violenza generatrice del fuoco, Talete
richiama piuttosto alla calma potenza delle onde. Da una parte l'immediatezza
delle eruzioni vulcaniche dall'altra la lenta, progressiva erosione
delle acque. Ma la vita, sembra dire Goethe, nasce da forze pacate,
da energie miti: quando i pallidi raggi lunari illuminano le onde che
si distendono lievemente sulla riva.
Eppure l'armonia della natura non convince più il vecchio umanista
che evoca, per contrasto, forze irrazionali e sconosciute, rappresentate
sulla scena fantastica dai misteriosi Cabiri, esseri che si autogenerano
secondo le più stravaganti metamorfosi. Dèi collocati nei gradini inferiori
nella scala degli organismi, essi rappresentano il brulicare infimo
e al tempo stesso sublime delle energie generatrici e performatrici
della natura.
Goethe preannuncia qui una visione evoluzionistica della natura che
oscilla tra un modello gerarchico e piramidale, finalizzato alla perfezione
dell'uomo, attribuito a Talete, e un modello aperto e contraddittorio,
attribuito a Proteo. Proteo (il dio della metamorfica mutevolezza dei
fenomeni naturali) propone a Homunculus per acquisire un corpo di immergersi
nel mare: "dapprima si inizia dal piccolo - dice - ...poi si cresce
poco a poco e ci si forma a compiti più alti" (8260-8264). Ma è
proprio così? Il progresso porta soltanto dalle forme rudimentali a
quelle compiute? Oppure al vertice dell'evoluzione regna la morte come
conseguenza inevitabile di ogni processo realizzato: "gli ordini
più alti" portano alla conclusione del tempo e "appena sei
diventato un uomo, allora è finita per te" (8327-8332). L'aggancio
con il successivo pensiero di Freud è evidente. L'idea che lo scopo
della vita sia la morte espresso in Al di là del principio di piacere
e soprattutto la forma cosmica che assume il pensiero freudiano
è probabilmente debitrice alla fantasia goethiana.
Se l'intelletto puro di Homunculus si umanizza, dovrà accettare anche
il destino dell'umano, la morte. Poiché la forma compiuta è votata alla
distruzione, meglio vivere nel flusso biologico delle onde, nella vita
allo stato nascente è il definitivo responso di Proteo. D'altra parte,
come sostiene Nereo il dio del mare padre delle Doridi, anche l'amore
come tutte le umane passioni è destinato a finire, ciò che non muta
è la natura umana, schiava dei propri desideri, sorda agli avvertimenti
degli Dèi e agli ammaestramenti dell'esperienza.
Eppure nulla trattiene Homunculus dall'intraprendere il periglioso
viaggio iniziatico verso le metamorfosi dell'ominizzazione, sale pertanto
sulle spalle di Proteo-delfino e si immerge nella lucente mobilità delle
onde. Appena giunge nella baia la più bella della Doridi, Galatea, issata
su di una conchiglia trascinata da una schiera di delfini, Homunculus
si abbaglia di luce e di suono e, preda di una "imperiosa voglia",
si slancia contro il suo cocchio marino. La fiala si schianta e il suo
luminoso contenuto si tramuta nel luccichio fosforescente delle onde
che si disperde sul mare mentre le sirene elevano un canto all'amore:
"E dunque Eros regni, principio di tutto!" (8475).
Goethe sorvola sulll'inizio-fine di Homunculus, lascia al non detto
le successive metamorfosi che lo porteranno dal plancton all'umanità,
ciò che gli sta a cuore è ribadire la superiorità del tutto sul particolare,
l'originaria indistinzione di materia e forma, la potenza vitale dell'amore
contro la fredda magia del pensiero, la priorità della maternità sulla
paternità. Sembra alla fine che la definizione che, alla domanda "tu
chi sei?" Mefistofele dà di se stesso: "Una parte della forza/
che vuole sempre il male e opera sempre il bene" (1336-1337) si
sia, dopo tante traversie, pienamente realizzata. Ma Goethe ritiene
che l'errore sia la condizione per giungere alla verità.
L'inno con cui si conclude la Notte di Valpurga classica, in
cui Goethe ha sparato tutti i fuochi artificiali della sua fantasmagorica
fantasia, inneggia con semplicità classica ai quattro elementi (aria,
acqua, terra e fuoco) che, sintetizzati dall'amore, e non già dall'artificio,
danno luogo alla vera vita, quella che sopravvive a se stessa nel tempo
eterno della natura.
Abbiamo incontrato, in questo tragitto attraverso il Faust II,
tre forme di generatività, comprese tra l'infanticidio di Margherita
e il trionfo della Mater Gloriosa, tra la miseria umana e la trascendenza
sublime dell'Eterno elemento femminile/ che ci trae verso l'alto"
(12110-1211).
Una pertiene al sacro ed è quella delle Grandi Madri da cui si sprigionano
le forme del mondo; la seconda , grottescamente rappresentata da Homunculus,
è il prodotto di due figure maschili, il diabolico Mefistofele e l'alchimista
Wagner; infine la generatività prima e ultima, quella della natura che
tutto contiene, è simbolizzata dal mare che accoglie il vivente nel
ciclo dell'eterno ritorno.
Ai tempi di Goethe la nascita artificiale era soltanto il ricordo di
una fantasia medioevale ma ora, in tempi di biotecnologie, l'Homunculus
si è fatto realtà.
Proprio per questo emerge, con particolare cogenza, l'invito di Goethe
a ragionare nella dimensione della complessità, della pluridimensionalità
del vivente. Il pensiero razionale non basta a comprendere e governare
processi procreativi che hanno i tempi brevi della tecnica ma che eludono,
come superflui, i lunghi, ciclici ritmi della natura. Freud riprenderà
questa riflessione nell'ermetico saggio su Il motivo della scelta
degli scrigni dove il tempo della vita, la determinazione delle
leggi naturali, l'inesorabilità della morte, in altri termini la verità
dell'uomo, è affidato alle metamorfosi del femminile. Una rivelazione
che è possibile cogliere, nella molteplicità dei fenomeni, solo attraverso
i filtri disvelanti della bellezza e dell'amore.
Come canta Nereo, guardando ammirato "la conchiglia sovrana"
di Galatea (8455-8458):
Quel che si ama splende tra la folla
e per quanto lontano
puro scintilla e limpido,
prossimo e sempre vero.
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